Fra le aberrazioni della nostra cultura collettivista e dirigista c' è la convinzione che i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali (alla copertura pubblica dei bisogni collettivi, quali la scuola, la sanità, le pensioni) siano incompatibili e che, per tutelare i diritti sociali, sia necessario limitare i diritti soggettivi.
Di qui la subordinazione di questi ultimi all' «utilità sociale», all' «interesse collettivo», al «bene comune» e quant' altro.
La convinzione ha prodotto una triplice distorsione, al tempo stesso concettuale e politica.
Prima: l' identificazione/assimilazione fra idea di benessere e idea di libertà; quest' ultima non dipenderebbe dall' assenza di impedimento e di coercizione, ma dal possesso di determinate risorse. Seconda: il conseguente snaturamento del concetto di welfare; che assume, di conseguenza, il carattere di pre-condizione della libertà «sostanziale» (economica e sociale prima che politica) rispetto a quella «formale» (costituzionale) liberale.
Terza: l' attribuzione al sistema fiscale di una funzione sociale, egualitaristica, attraverso l' equa «redistribuzione» della ricchezza prodotta.
In realtà, più benessere non genera più libertà.
Chi dorme al Grand Hotel non è più libero di chi dorme sotto i ponti.
E' pur vero che un detto «progressista» dice che la sola libertà che hanno i meno abbienti è proprio quella di dormire sotto i ponti.
Ma, a ben vedere, la stessa libertà ce l' hanno anche i più abbienti, quelli che dormono al Grand Hotel. La sola differenza fra i due è che questi ultimi dormono più confortevolmente; non che godono di una maggiore libertà.
Il problema di una società «aperta» e competitiva è, allora, di fare in modo che tutti possano dormire in un letto, non che tutti dormano al Grand Hotel o tutti sotto i ponti, secondo una concezione utopisticamente egualitaristica e illiberale della convivenza civile.
Il welfare non è, dunque, un valore assoluto, come la libertà, né il presupposto di una libertà superiore, quale sarebbe quella «sostanziale», ma è un «servizio» o, se si preferisce, uno «strumento», di natura economico-sociale, col quale combattere puramente e semplicemente la povertà.
Una natura sociale che, oltre tutto, può addirittura assumere, nel tempo, connotazioni nuove e diverse.
«All' idea che il "sociale" corrisponda alla copertura pubblica dei bisogni collettivi - ha scritto De Rita - comincia infatti a contrapporsi una seconda idea, per cui il sociale starebbe nell' accesso popolare a beni e servizi resi meno costosi dal mercato e dalla concorrenza».
In tale contesto, poiché la sola funzione del sistema fiscale è il reperimento delle risorse necessarie a coprire il fabbisogno di beni collettivi - oltre tutto in continua evoluzione nel tempo -, è la spesa pubblica che dovrebbe essere rapportata agli introiti, non sono questi che dovrebbero inseguire quella come accade ora.
Con le pessime conseguenze sul bilancio dello Stato che sono sotto gli occhi di tutti.
La riduzione della pressione fiscale, che oggi è percepita, e perciò ostacolata dalle rappresentanze dei lavoratori come un pericolo di ridimensionamento del welfare , diventa, così, a sua volta, prima ancora che un provvedimento di carattere economico, un «fatto di libertà».
La libertà del cittadino di disporre a proprio piacimento di una porzione maggiore del proprio reddito; reddito che lo Stato amministra oggi a propria discrezione e non sempre in modo oculato.
Forse, è venuto il momento di riabilitare il pensiero liberale di fronte alla palese incapacità di quello collettivista e dirigista di gestire un mondo che cambia rapidamente.
di Piero Ostellino
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